22 Giu 2023

La controffensiva “silenziosa” e il nucleare tattico – #750

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Torniamo ad aggiornarci su quanto sta avvenendo in Ucraina, fra l’andamento della controffensiva, le armi nucleari tattiche di Putin alla Bielorussia, l’inchiesta del New York Times sul crollo della diga di Kakhovka, il governo polacco che forse vuole inviare le sue truppe e la proposta di Black Rock e JP Morgan per la ricostruzione. Parliamo anche del comportamento un poi’ schizofrenico del governo americano verso quello cinese e delle grandi proteste antigovernative in Serbia.

È un po’ di tempo che non diamo aggiornamenti sulla situazione in Ucraina, perciò forse è il caso di fare il punto. Devo ammettere che in parte questa mancanza di notizie sul conflitto è dovuto alla più volte citata qui su INMR difficoltà di lettura di quello che succede. Più passa il tempo e più la guerra si frammenta, si parcellizza. Nei primi giorni dell’invasione russa dell’Ucraina gli avvenimenti erano piuttosto chiari, così come lo erano gli spostamenti delle truppe. Adesso invece i fronti su cui si combatte si sono moltiplicati e anche le strategie di comunicazione dei vari soggetti coinvolti si sono affinate al punto che tenere le fila e avere una visione chiara di quello che succede è davvero difficile, bisognerebbe fare solo quello nella vita. 

Detto ciò, e quindi rinunciando alla pretesa di darvi un quadro complessivo, credo che sia comunque importante fare il punto sulle ultime cose successe. Che sono un bel po’. Direi, per darci un quadro entro cui stare, che dobbiamo parlare almeno della controffensiva ucraina e di come sta andando, delle armi nucleari russe alla Bielorussia, delle novità sull’esplosione della diga di Kakhovka, del governo polacco che scalpita per mandare il suo esercito e la questione della ricostruzione del paese che potrebbe finire in mano ai colossi finanziari statunitensi.

Sulla controffensiva ucraina, si dice molto senza dire niente. Alcuni giornali, tipo il Tempo, la definiscono fiacca o deludente, citando report di analisti statunitensi che commentano i mancati avanzamenti di questi ultimi giorni. Altri invece sostengono che ci sia e stia andando anche abbastanza bene, ma che non si veda. 

Mi sembra che Andrea Lavazza su L’Avvenire esprima bene questo senso di incertezza: “La guerra in Ucraina è giunta al suo 481° giorno. E continua a essere “oscurata” la controffensiva di Kiev nelle sue dimensioni reali. L’esercito del Paese aggredito avrebbe riconquistato 113 chilometri quadrati di territorio, compreso, da ultimo, il villaggio di Pyatykhatky sul fronte meridionale nella regione di Kharkiv, secondo quanto dichiarato dalla viceministra della Difesa, Ganna Maliar, incaricata in questa fase di rilasciare dichiarazioni sulle operazioni militari.

Il tutto sembra finalizzato, come scrive Nello Scavo su “Avvenire”, ad avvicinarsi il più possibile al Mare d’Azov per raggiungere una distanza inferiore ai 100 chilometri dalle linee russe più meridionali, in modo da poterle colpire con i lanciatori Usa Himars, che tanto si sono rivelati efficaci in questi mesi di combattimenti. Il piano più ambizioso sarebbe quello di tagliare i collegamenti diretti tra le aree prese dai russi e la Crimea.

Resta il fatto che sull’entità delle forze impiegate da Kiev e sui risultati che esse stanno raggiungendo nel superare le linee fortificate russe nonché sulle perdite di uomini e mezzi da entrambi le parti è calata una nebbia di guerra che rende difficile dare una valutazione della controffensiva in corso. La propaganda russa che parla di massacri di soldati ucraini non è certamente affidabile. Tuttavia, la cautela delle fonti Nato, dopo i forti investimenti in forniture militari per l’avvio dell’azione di riconquista, dice che lo sfondamento ancora non c’è stato. Questo non deve essere comunque preso come prova del fallimento. È probabile che il grosso delle forze non sia stato ancora messo in campo e che l’azione sarà diluita più di quanto si fosse ipotizzato qualche tempo fa”.

Passiamo alla questione della diga di Kakhovka. Ricorderete che lo scorso 6 giugno si è verificato questo disastro per cui è crollata una parte di questa diga che sorregge un enorme bacino artificiale e che di conseguenza ha inondato l’area circostante e fatto esondare in più punti il fiume Dnipro, causando almeno 50 morti e migliaia di sfollati, oltre a un danno ambientale enorme e a sicuri problemi di sicurezza alimentare.

Subito dopo il crollo della diga di Kakhovka, erano state avanzate più ipotesi: c’era chi aveva parlato dell’erosione causata dalle enormi quantità d’acqua accumulata, chi aveva ipotizzato un attacco missilistico esterno, chi aveva pensato a un cedimento strutturale in seguito ai danni provocati da precedenti attacchi da parte di ucraini e russi in questi mesi di guerra, e infine c’era l’ipotesi di un attacco mirato da parte di una delle due parti.

Qualche giorno fa una lunga inchiesta del NYT, che ha incrociato moltissimi dati, immagini satellitari e studi strutturali è arrivata a concludere che l’unica ipotesi realistica sia l’ultima, ovvero quello dell’esplosione causata da un attacco mirato. Secondo quanto spiegato al Times da ingegneri ed esperti di esplosivi, infatti, la diga è stata costruita «con un enorme blocco di cemento alla base», ed è attraversata da «un piccolo passaggio, raggiungibile dalla sala macchine». Secondo «quanto suggeriscono le prove», è proprio qui che sarebbe «esplosa la carica che ha distrutto la struttura».

L’inchiesta arriva quindi ad affermare che, sebbene in via teorica esistano «molteplici possibili spiegazioni», è molto probabile che l’esplosione sia stata provocata dalla parte che controlla la diga. Ovvero, la Russia. Non ho informazioni per commentare in maniera significativa. Ricordo che il NYT è un giornale molto serio e attento alle fonti, ma anche che è inevitabilmente schierato nel conflitto. Se e quanto questo possa influenzare le conclusioni dell’inchiesta però, onestamente, non lo so. 

Passiamo alla questione delle armi nucleari tattiche alla Bielorissia. La storia in breve è questa. A marzo Putin ha detto di aver intenzione di posizionare delle armi nucleari tattiche, a scopo difensivo, in Bielorussia, e il 25 maggio è arrivata la firma dell’accordo con il suo omologo Lukashenko. La novità di questi giorni è che secondo quanto affermato da  Alexei Polishchuk un alto diplomatico russo dall’agenzia di stampa statale russa Tass, “Il dispiegamento di armi nucleari tattiche da parte della Russia in Bielorussia non è limitato nel tempo”. Ovvero non è temporaneo. 

Qui forse merita fare un piccolo accenno, a cosa sono le armi nucleari tattiche. Come spiega Kevin Carboni su Wired, “non si tratta di armi nucleari strategiche pensate con funzione deterrente, cioè quelle in grado di spazzare via completamente intere città, ma armi nucleari tattiche. Si tratta di testate più piccole pensate per l’uso sul campo di battaglia e per colpire obiettivi limitati, meno potenti di quelle strategiche e con un potenziale distruttivo minore, hanno la funzione di mettere fuori uso o ridurre la capacità aggressiva degli eserciti nemici o di arrestarne l’avanzata sul terreno di battaglia.

Il timore più grande, in questo momento, non è un loro uso contro l’Unione europea, perché così facendo Putin innescherebbe la reazione della Nato. Piuttosto la preoccupazione è che vengano impiegate nell’Ucraina occidentale, nel momento in cui le forze di Kyiv cominceranno la loro controffensiva nei territori occupati da Mosca”.

A questa possibile escalation, da tenere sicuramente d’occhio, ne sta forse avvenendo una speculare sull’altro fronte, con altri strumenti. Dico forse perché trovo la notizia riportata solo in un articolo di Domenico Quirico su La Stampa. Articolo secondo il quale la Polonia starebbe considerando di inviare alcune sue truppe in aiuto dell’esercito ucraino per accelerare la controffensiva. Il titolo dell’articolo, come avviene spesso, è piuttosto allarmante: “La Nato sta per varcare il Rubicone: polacchi pronti a combattere i russi”. E il sottotitolo pure peggio: “L’offensiva di Zelensky non sfonda e alcuni Paesi vorrebbero scendere in campo. Così la guerra in Ucraina cambierebbe natura, più vicino lo scenario Sarajevo 1914”. 

Il fatto che però in nessun altro giornale italiano e mondiale (per quanto sono riuscito a cercare ovviamente) compaia una notizia simile mi fa sollevare diversi dubbi sulla sua attendibilità.

Infine, e poi chiudiamo questo lungo capitolo sull’Ucraina, segnalo che da più parti sono usciti articoli che raccontano, con toni molto diversi fra loro, che vanno dall’entusiasta al cospirazionista, la proposta di aiuto avanzata da BlackRock e Jp Morgan per la ricostruzione dell’Ucraina. 

Come racconta Pierpaolo Molinengo su Wall Streeet Italia “BlackRock e JP Morgan Chase, le due principali società d’investimento statunitensi, daranno una mano all’Ucraina. L’intenzione è quella di creare un Fondo per lo Sviluppo dell’Ucraina, una vera e propria banca di investimento, il cui scopo è quello di sostenere la ripresa economica del paese dopo la guerra”.

“Lo scopo del nuovo fondo di Sviluppo è quello di attirare dei prestiti a basso costo provenienti dagli altri Stati, provenienti da dei donatori e dalle istituzioni finanziarie internazionali. L’intento è molto preciso: si sta pensando ad un approccio di finanza mista, che è già stato utilizzato in altri paesi. Ad avere la priorità saranno alcuni settori, come le infrastrutture, il clima e l’agricoltura”.

Ma come si muoverà il nuovo fondo per lo sviluppo dell’Ucraina. A spiegarlo è stato Stefan Weiler, responsabile dei mercati dei capitali di debito di JP Morgan per l’Europa centrale, il Medio Oriente e l’Africa, il quale, intervistato dal Financial Times, ha spiegato che “ci saranno diversi fondi settoriali che il fondo ha identificato come priorità per l’Ucraina. L’obiettivo è massimizzare la partecipazione al capitale”.

Le stime del costo della ricostruzione variano ampiamente, ma la Banca mondiale, il governo ucraino, la Commissione europea e le Nazioni Unite ritengono che il conto totale arriverà a 411 miliardi di dollari. Altri esperti ritengono che questa cifra possa arrivare ad 1 trilione di dollari, se si prendono in considerazione tutti i costi economici. L’intero valore dell’economia prebellica dell’Ucraina era pari a circa 100 miliardi di dollari.

Ora, qui il tema è delicato, ed è facile cadere nei ragionamenti facili. Mi spiego: è indiscutibile che per ricostruire un paese martoriato dalla guerra ci sia bisogno di molti investimenti e che quindi è abbastanza “normale” che si muovano i colossi della finanza. Ma c’è un passaggio, presente nell’articolo che vi ho appena letto, che mi ha fatto abbastanza rabbrividire, ed è questo, ve lo rileggo: “ci saranno diversi fondi settoriali che il fondo ha identificato come priorità per l’Ucraina”. Cioè: le priorità per l’Ucraina non le decidono i cittadini Ucraini, ma un enorme fondo d’investimento. Che ovviamente, essendo perlopiù composto da fondi privati, ha come obiettivo la massimizzazione del profitto. 

Insomma, mi suona molto una soluzione in salsa capitalismo dei disastri, a essere onesto. Ancora non c’è niente di certo e stabilito, e fra l’altro la guerra è ancora in corso, ma proprio per questo è utile parlarne. Perché a volte la fretta e una situazione di bisogno estremo portano a scelte scellerate.

Restando in tema di relazioni internazionali, c’è un piccolo aggiornamento abbastanza incomprensibile sul tema delle relazioni Cina-Usa. Parlavamo ieri delle possibili aperture al dialogo fra le due superpotenze in seguito all’incontro fra Xi e il segretario di stato Usa Antony Blinken. Poi ieri pomeriggio Biden se ne uscito cun una dichiarazione in cui ha dato del “dittatore” a Xi Jinping.

Ha detto: “Il motivo per cui Xi Jinping si è molto arrabbiato quando ho fatto abbattere quel pallone con due vagoni pieni di equipaggiamento di spionaggio è che non sapeva che fosse lì. No, sono serio. Quello è il grande imbarazzo per i dittatori, quando non sanno cosa è successo. Non doveva andare dov’era. È stato portato fuori rotta attraverso l’Alaska e poi giù attraverso gli Stati Uniti e lui non lo sapeva”.

Ovviamente è arrivata immediata la reazione di Pechino che ha definito “assurdi” i commenti fatti dal presidente degli Stati Uniti. Una portavoce del governo cinese ha dichiarato: “Le dichiarazioni in merito da parte degli Stati Uniti sono estremamente assurde e irresponsabili, violano seriamente i fatti fondamentali, il protocollo diplomatico e la dignità politica della Cina”. Questo Biden che si mette a fare il Trump è una roba un po’ preoccupante. 

Va bene, cambiamo argomento. Non so se vi ricordate, ma tempo fa, all’inizio di maggio, raccontavamo delle grandi proteste in Serbia seguite a due sparatorie di massa ravvicinate. I manifestanti chiedevano leggi più severe contro la vendita di armi, e contro una cultura popolare di esaltazione della violenza che secondo alcuni è molto presente a vari livelli della società serba. 

Ecco, come ci racconta il Post “Da allora quelle proteste si sono allargate: ogni sabato nelle principali città serbe, soprattutto nella capitale Belgrado, sfilano migliaia di persone per protestare contro il governo e il presidente Aleksandar Vučić, accusandoli di comprimere la libertà di opinione e gli spazi dell’opposizione”.

“Secondo Euronews le proteste di questi giorni sono le più grandi da quelle che nel 2000 spinsero l’allora presidente Slobodan Milošević ad accettare la sconfitta subita alle elezioni politiche del 2000.”

In Serbia negli ultimi anni l’opposizione a Vučić aveva provato spesso a organizzare proteste anti-governative di massa, ma per varie ragioni nessuna aveva mai attecchito. Stavolta qualcosa sembra essere cambiato. Come ha detto un parlamentare di opposizione: «Queste proteste sono qualcosa di nuovo e diverso rispetto a quelle degli anni scorsi. Stanno scendendo per strada persone che hanno opinioni politiche varie, e appartengono a generazioni e classi sociali differenti».

La Serbia è certamente un paese particolare. È il paese più filorusso d’Europa, e da dieci anni la sua scena politica serba è dominata da Vučić, che ha 53 anni e un passato da nazionalista radicale: era ministro durante l’amministrazione Milošević. 

I manifestanti di queste settimane stanno protestando sia contro il controllo indiretto che Vučić ha imposto ai media, sia più in generale per il clima che si è creato contro chi si oppone al governo e alle sue politiche. Chiedono in particolare che il governo rimuova le frequenze a due tv private filo-governative, Pink e Happy TV, che garantisca maggiore libertà per i quotidiani di opposizione – secondo alcuni calcoli ne sono rimasti appena due – e che si dimettano sia il capo dell’intelligence sia il ministro dell’Interno per la gestione della violenza e della criminalità, definita poco efficace.

Non è chiaro esattamente quali sviluppi potranno esserci a breve. La prima ministra Ana Brnabić, vicinissima a Vučić e considerata una delle figure più dialoganti del governo, si è offerta di accogliere i manifestanti e ascoltare le loro proposte: ad oggi però i manifestanti hanno rifiutato, chiedendo prima dei passi concreti da parte del governo. Vučić ha fatto intuire che potrebbe indire elezioni anticipate per sperimentare il suo consenso, ma non lo ha ancora confermato ufficialmente. Staremo a vedere, e come al solito ci aggiorniamo.

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