UN MODO DIVERSO DI CONCEPIRE LE FERIE ESTIVE In Gabon all’ospedale di Lambaréné

UN MODO DIVERSO DI CONCEPIRE LE FERIE ESTIVE

In Gabon all’ospedale di Lambaréné

Quest’anno idealmente mi sono “catapultato” in Africa nel mese di luglio 1963, due anni

prima della morte del dott. Albert Schweitzer, che mi ha rilasciato la seguente intervista

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)

Dottor Schweitzer, dalle sue autobiografie emerge che ha trascorso infanzia e adolescenza serene ma non prive di pensieri e profonde riflessioni. Che cosa l’assillava quando era studente e soprattutto dopo aver letto Nietzsche e Tolstoi?

“Mi domandavo se la nostra cultura possiede realmente le energie etiche necessarie. Dalla lettura delle opere dei maggiori filosofi, dal 1850 sino alla fine del secolo scorso, appresi che, per i più importanti fiolosofi europei di quel periodo, la cultura e l’etica non costituivano più un problema: erano considerate ed accettate come acquisizioni spirituali date. Inoltre, non potevo sottrarmi al pensiero che proprio quest’etica, considerata “definitiva”, non esigeva grande impegno dai singoli e dalla società”.

In seguito cosa fece?

“Decisi di compiere una esame approfondito e di raccogliere  i miei pensieri in un’opera critica, che doveva essere intitolata “Cultura ed etica”. Però, dal momento che il nostro mi sembrava piuttosto un periodo di decadenza spirituale, fui tentato di trasformare il titolo in “Noi epigoni”. In seguito compresi che non ero il solo ad avere la consapevolezza che viveamo in un ‘epoca di epigoni! Durante uno dei primi anni del nuovo secolo mi dedicai ad una lunga ricerca: la maggior parte dei filosofi considerava secondario questo argomento; pochi soltanto gli davano spazio… Tuttavia, ero convinto che anche l’etica filosofica dovesse prendere in considerazione l’obbligo di un atteggiameto favorevole nei confronti degli animali”

Qual era il suo temperamento, o carattere, in quegli anni?

“Non ero molto litigioso, mi piaceva talvolta misurare le forze lottando amichevolmente con gli altri. Ricordo che un giorno, tornando da scuola, riuscii a scorgere Georg Nitschelm (ormai morto da molti anni), che era più grande e veniva considerato più forte di me. Mentre lo inchiodavo con le spalle a terra, lo sentii esclamare: “Se mangiassi anch’io due volte alla settimana la minestra di carne, sarei forte come te!”. Spaventato, me ne tornai a casa vacillando. Georg Nitschelm aveva detto con brutale chiarezza ciò che io avevo sentito già in altre occasioni: i ragazzi del villaggio non mi consideravano uno di loro. Le mie condizioni materiali erano migliori; essi vedevano in me il figlio del parroco, il signorino. Ne soffrivo molto, perché non volevo essere diverso. Volevo vivere come loro, senza alcun privilegio. Da quel giorno cercai di essere come tutti gli altri”.

Dottor Schweitzer, ha conosciuto la gioia giovanile di vivere?

“Ho sempre sofferto per le miserie che ho visto nel mondo e posso affermare di non aver mai conosciuto quella che lei definisce gioia giovanile di vivere. Penso che sia lo stesso per molti bambini, anche se esteriormente sembrano allegri e spensierati. Particolarmente soffrivo per tutte le pene inflitte ai poveri animali. Per molte settimane non mi liberai dell’immagine di un vecchio cavallo zoppicante, che un uomo dietro di me tirava per una fune, mentre un altro lo colpiva con un bastone. Veniva portato al macello di Colmar. Neppure riuscivo a comprendere, già prima di andare a scuola, perché nelle mie preghiere serali dovessi ricordarmi soltanto degli uomini. Dopo aver perciò pregato con mia mamma e dopo il bacio della buona notte, recitavo ancora, segretamente, un’orazione supplementare per tutti gli esseri viventi. Dicevo: “Padre nostro, proteggi e benedici tutto ciò che ha vita, guardalo da ogni male e fallo riposare in pace!”

Ritiene di aver ereditato il suo carattere da un suo famigliare, o di essersi formato in seguito a queste vicissitudini?

“Nelle medie i miei compagni, durante le lezioni, ne approfittavano crudelmente, e il registro di classe  portava spesso l’annotazione: “Schweitzer ride”. In verità non avevo un carattere allegro, ero piuttosto timido e chiuso. Avevo ereditato questo carattere dalla mamma. Basti pensare che non riuscivamo a esprimere a parole l’amore che provavamo l’uno per l’altra. Potrei contare sulle punte delle dita le ore in cui ci siamo veramente parlati, ma ci comprendevamo senza bisogno di aprire bocca. Anche la mia impetuosità veniva da lei, che a sua volta l’aveva presa dal padre, uomo facile all’ira (pur essendo molto buono). Di questa focosità innata avevo coscienza durante le ore di gioco, che prendevo estremamente sul serio, scaldandomi quando vedevo altri che non si dedicavano con anima e corpo. Per il resto ero una ragazzo tranquillo e con la testa nelle nuvole; faticai non poco per imparare a leggere e a scrivere”

C’è stato un episodio, invece, che ha avuto a che fare con la sua iniziale passione per la musica?

“Prima ancora che andassi a scuola, mio padre aveva incominciato a darmi lezioni di musica su un vecchio pianoforte. Non mi piaceva seguire le note e preferivo improvvisare e riprodurre canzoni e corali con un accompagnamento di mia invenzione. Durante le lezioni di canto la maestra intonava il corale senza accompagnamento, ciò che mi dava fastidio. Un giorno, durante la ricreazione, le chiesi perché non lo suonasse. Preso dalla mia idea, mi misi all’armonium e glielo suonai a orecchio a più voci, improvvisandolo. La maestra divenne molto gentile e mi guardò con stupore senza tuttavia smettere di battere con un solo dito. Sapevo fare qualcosa più di lei e mi vergognai di averle sciorinato la mia scienza, che in fondo avevo ritenuto del tutto normale, quasi con l’aria di volerglielo insegnare. Zia Sofia, soleva dirmi: “Tu non sai quanto la musica ti potrà essere utile nella vita”. Certamente non immaginava che mi avrebbe un giorno aiutato a raccogliere fondi necessari per costruire un ospedale nella foresta vergine”

Ma come si intensificò questa predisposizione, tanto da dover diventare uno dei più importanti concertisti, ma anche musicologo e appassionato della storia degli organi sino ad imparare a costruirli e ripararli?

“Dopo alcuni episodi di incomprensione e insoddisfazione con il mio insegnante di musica Eugen Munch, organista della chiesa calvinista, venuto dal Conservatorio di Berlino, che mi diede le prime lezioni, a causa del mio voler “improvvisare” e della difficoltà a suonare con immedesimazione davanti all’insegnante, mi esercitai su un brano (“Roma senza parole” in MI maggiore di Mendelsshon), provando anche le digitazioni più razionali e le misi su carta. Quando ebbi finito il lavoro preparatorio, mi sforzai nella lezione successiva di suonare la canzone così come la sentivo in me. Dopo alcune lezioni l’insegnante mi trovò degno di avvicinarmi a Bach. Così si realizzò un sogno che avevo coltivato di nascosto; avevo nel sangue la passione per l’organo”

Durante il periodo degli studi liceali ha avuto un insegnante, o un istitutore  che le è servito prendere a modello nel suo ruolo di docente di filosofia e teologia?
“La mia carriera scolastica non ebbe un inizio felice: le brutte pagelle diedero molte preoccupazioni ai miei genitori. A scuola volevano perfino togliermi la borsa di studio della quale fruivo come figlio di parroco… Allora mi apparve il salvatore: il nuovo insegnante, il dott. Wehmann. Per quanto fossi distratto, mi accorsi fin dai primi giorni che egli preparava con cura ogni lezione. Sapeva perfettamente quanta materia doveva svolgere e ci riusciva sempre. Nel giorno e all’ora esatta ridava i quaderni di bella copia. Questa autodisciplina che vedevo messa in atto ogni giorno davanti a me ebbe effetto sulla mia indole: mi sarei vergognato, se non fossi piaciuto a un simile maestro, ed egli diventò il modello. Dopo tre mesi, in quarta liceo, la mia pagella del secondo trimestre mi poneva già fra i migliori… Wehmann mi insegnò che la capacità educativa è data da un profondo e minuziosissimo senso del dovere e che con questo si giunge anche là, dove falliscono le parole e i castighi. Ho sempre cercato di applicare nella mia attività di educatore questo insegnamento”

Dott. Schweitzer, come ha concepito il fatto che il dolore e la sofferenza hanno regnato e regnano nel mondo?

“Il pensiero di aver potuto godere di una gioventù tanto particolarmente felice mi occupava continuamente. Anzi, mi opprimeva addirittura. E sempre più chiaro mi si presentava il problema se io, avevo il diritto di possedere questa fortuna come qualche cosa di naturale. In tal modo il problema del diritto alla felicità è diventato per me il secondo grande “avvenimento” della mia vita”

Dopo anni dedicati all’insegnamento e alla predica, ha deciso di passare ai fatti, rinunciando alla sua posizione di direttore del Seminario. Perché?

“Volevo diventare dottore per trovarmi nella possibilità di lavorare senza dover parlare… Con la conoscenza della Medicina potevo realizzare il mio progetto nel migliore e nel più completo dei modi. In vista del progetto per l’Africa equatoriale, l’acquisizione di tale scienza era specialmente indicata perché nel distretto in cui pensavo di andare, un dottore era, secondo le relazioni dei missionari, ciò di cui avevano soprattutto bisogno. Si lamentavano sempre nel loro giornale di non poter dare l’aiuto desiderato agli indigeni sofferenti che si recavano da loro. Per divenire un giorno il dottore di queste povere creature, che avevano tanto bisogno, valeva la pena, a parer mio, di mettermi a studiare Medicina”

Come immaginava l’esperienza di medico e di predicatore accanto a quei poveri infelici e sofferenti in Gabon?

“La nuova attività non potevo immaginarla come un continuo discorrere sulla religione dell’amore, ma soltanto come un’effettiva attuazione di essa. Con la conoscenza della Medicina potevo realizzare il mio progetto nel migliore di modi, qualunque fosse il luogo verso cui il sentiero della professione mi avrebbe condotto”

In tutti questi anni, in gran parte dedicati al servizio degli umili e più diseredati, quali fardelli ha dovuto sostenere?

“Alla mia vita sono stati destinati ansietà, fastidi e dolori talvolta in misura così abbondante che se non avessi avuto i nervi ben saldi avrei dovuto cedere. Ma ho ricevuto anche delle benedizioni: mi è stato concesso di lavorare al servizio della misericordia; il mio lavoro ha avuto successo, ricevo dalla gente grandi dimostrazioni di affetto e di gentilezza, ho dei fedeli sostenitori che si immedesimano nella mia attività, godo di una salute che mi permette di intraprendere dei lavori faticosissimi, ho un carattere equilibrato che non è soggetto a mutamenti d’umore e un’energia che s’impone con calma e ponderazione, infine sono in grado di riconoscere ogni felicità che mi viene concessa dalla sorte, e l’accolgo come qualcosa per cui devo rendere grazie”

Sicuramente ha dovuto affrontare e curare patologie di vario tipo ed entità, che immagino essere la lebbra, la malaria, polmonite, dissenteria, etilismo, malattia del sonno e forse altre ancora. Per non parlare dei casi “incurabili” e drammatici. Come è intervenuto sinora in tali situazioni?

“Presso i nativi è imprudente cercare di dare speranza all’ammalato e ai suoi familiari quando in verità non ce n’è più. Se sopraggiunge la morte senza che sia stata debitamente predetta, la gente conclude che il medico non sapeva che la malattia avrebbe avuto esito e quindi non l’aveva individuata. Agli ammalati indigeni bisogna dire la verità senza riguardo. Essi vogliono conoscerla e sanno sopportarla. La morte è per loro qualcosa di naturale. Non la temono, l’attendono con calma. Se poi contro ogni attesa l’ammalato se la cava, tanto meglio per la fama del medico, il quale viene considerato uno capace di guarire persino le malattie che conducono alla morte”

Dott. Schweitzer, più volte le è stato contestato il fatto di non essersi voluto adeguare “ai tempi”, rifiutando, ad esempio, la possibilità di fruire di un ospedale più moderno, riducendo così disagi e difficoltà soprattutto ai malati; e che per questa ragione non sono mancate antipatie e qualche accusa… Quanto c’è di vero in tutto questo?

“Se io costringessi i miei malati a vivere in linde corsie con letti in ferro, tra lenzuola sterilizzate, con pigiama bianchi e così via, nessuno verrebbe qua. Si lasciano portare volentieri da me perché io concedo a tutti la libertà: vivono nel mio ospedale come a casa loro, con le loro abitudini e le loro piccole o grandi infrazioni dell’igiene. Ma io sono convinto che ci sia qualche cosa che val di più dell’igiene: la distensione dell’animo e l’azione favorevole dell’ambiente. Quanto ai rimedi, io uso quelli più moderni, dagli antibiotici ai cortisoni, dai sulfamidici alle vitamine. Qui abbiamo i raggi X, il microscopio, l’elettrocardiografo come nei Paesi civili. Per il resto la benignità della natura ci soccorre e i malati guariscono”

Ma il concetto di altruismo va ben oltre… Come può approfondirlo?

“Se l’uomo vuol far luce su sé stesso e sul suo rapporto con il mondo, deve prescindere dalla congerie di elementi che costituiscono il suo pensiero e la sua cultura e rifarsi al primo fatto della sua coscienza, il più immediato, quello che è perennemente presente. Solo di qui può giungere a una visione ragionata del mondo… L’affermazione della vita è l’atto spirituale con cui egli cessa di lasciarsi vivere comincia a dedicarsi alla sua vita con rispetto per elevarla al suo vero valore. Affermare la vita è approfondire, interiorizzare ed esaltare la volontà di vivere… L’etica del rispetto per la vita comprende dunque in sé tutto ciò che può esser definito come amore, dedizione, partecipazione nel dolore, nella gioia e nella fatica… Il rispetto per la vita nato nella volontà di vivere divenuta consapevole contiene, strettamente congiunte, l’affermazione del mondo e l’esigenza morale. Essa cerca di creare valori e realizzare progressi che giovino all’ascesa materiale, spirituale ed etica dell’uomo e dell’umanità”

Perché la visione moderna del mondo basata sull’affermazione della vita, da etica che era all’origine, si è trasformata in non etica?

“Ciò si può spiegare soltanto con il fatto che essa non era realmente fondata nel pensiero. Il pensiero che l’aveva generata era nobile ed entusiastico, ma non profondo. Esso avvertiva lo stretto legame esistente fra esigenza etica e affermazione della vita, più che dimostrarlo. Si professava fedele all’una e all’altra senza esser realmente penetrato nella loro natura e intima connessione…”

Lei considera Goethe la seconda grande personalità, dopo Bach, che maggiormente ha influito sulla sua formazione. Per quali ragioni?

“Mi riconosco, con gratitutdine, discepolo di Goethe. Gli incontri con l’autore del Faust hanno dato alla mia esistenza un’impronta particolare. Fu lui a sospingermi verso la filosofia della natura, e la sua profonda umanità mi è stata di impulso alla attività filantropica”

In tutti questi anni si è occupato, con appropriati studi, di musica e in particolare della vita e delle opere di Bach. Tuttavia, ancora oggi la musica è, nella sua essenza, un mistero. Qual è il suo pensiero in proposito?

“Nella musica l’espressione è completamente simbolica. La trasformazione in toni di sentimenti e di idee, anche se molto comuni, rimane un mistero. Le ultime ricerche nella fisiologia della sensazione musicale non ci aiutano per nulla; con esse si conquista solo un meraviglioso territorio coloniale per l’estetica della musica, che tuttavia alla fine non le frutterà nulla. La cosa più importante, il processo nervoso col quale la sensazione acustica si converte in sentimento, in una disposizione è e rimarrà inesplicabile”

Dott. Schweitzer, un’ultima domanda. Che ne sarà, dopo la sua morte, del suo ospedale privo di igiene, brulicante di capre, dove ha salvato migliaia di vite umane?

“Noi alsaziani siamo longevi. Mio padre e mio nonno morirono a novant’anni. Io ne ho solo ottantotto. Spero proprio di farcela. Ma voglio morire ad Adolinanogongo. In Europa non tornerò più. Chiedo solo di essere sepolto all’ombra di un vecchio dattero, là dove riposa mia moglie. E che i Galoa e i Pahuin cantino un salmo, quel giorno, per il loro “fratello maggiore” andato a raggiungere il Grande Oganga Gesù, che abita in cielo”

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