Seconda tappa in Armenia: Monasteri e Khachkar

di Nicola Pomponio

 

 

Il giorno 8 Ottobre dell’anno del Signore 451 si inaugurò un imponente Concilio Ecumenico che per numero di partecipanti sarebbe stato superato solo dal Vaticano II più di un millennio e mezzo dopo. Il concilio di Calcedonia, città fondata dai greci e ora quartiere di Istanbul (Kadikoy), era stato convocato per definire dottrinalmente le due nature (umana e divina) del Cristo contro l’eresia monofisita che, esaltandone la natura divina, giungeva a negarne l’umanità. Il Concilio stabilì la retta dottrina, fu un successo di Papa Leone (che si ricorda anche per la leggenda secondo cui avrebbe fermato da solo le orde unne di Attila ad Aquileia), ma, purtroppo, non riuscì a stabilire l’unità dei Cristiani. Vescovi egiziani, siriaci, etiopici non riconobbero le decisioni mentre l’Armenia, che era stata invasa dai Persiani, non mandò nessun vescovo e non aderì al dettato conciliare.
Da quella data in poi la Chiesa armena andò prendendo le distanze dalle altre Chiese e quando Giustiniano, un secolo dopo, tentò un controllo più aggressivo del regno la spaccatura si approfondì irrimediabilmente, unendo motivazioni dottrinali e rivendicazioni indipendentiste. La Chiesa armena è quindi autocefala; dottrinalmente non è lontana, non si proclama e non è assolutamente monofisita, né dal cattolicesimo né dall’ortodossia (in passato si è tentato più volte una riunione) e ha sviluppato un apparato liturgico imponente e suggestivo. Penso sia importante tenere a mente queste scarnissime informazioni quando si visitano i monasteri armeni; sono tantissimi e hanno rappresentato per la storia di questo paese un momento fondamentale per la conservazione, l’approfondimento, lo sviluppo della cultura e dell’identità collettiva della popolazione.


Nei giorni che ho soggiornato nel Caucaso ne ho visitati molti e naturalmente non è il caso di descriverli a uno a uno, ma due particolarità vanno subito tenute presenti: i monaci non appartengono, come in occidente, a ordini con gerarchie separate ma rispondono, come quello che noi chiamiamo clero secolare, alle gerarchie territoriali e al Katholikòs; inoltre se i monasteri possono dare l’impressione di essere architettonicamente simili tra di loro, in realtà a fronte di queste similitudini si articolano profonde differenze. Le due cose sono collegate perché, al contrario che in occidente dove esistono caratteristiche artistiche legate ai singoli ordini (arte benedettina, cistercense, francescana ecc.), il monastero armeno appare espressione di una omogenea rappresentazione del mondo e della fede. Ciò che subito colpisce sono i colori. Tutti i monasteri sono realizzati con pietre vulcaniche nere e rosso scuro; il che dà un’impressione di austera bellezza; pochissime chiese hanno un’illuminazione artificiale e le candele, la semioscurità, la luce che penetra da un oculo posto sulle sommità delle cupola e dal portone d’ingresso donano a queste costruzioni una bellezza ascetica. Nessuna statua, rarissimi dipinti con notevole predilezione per la figura di Maria; sembra così esprimersi una religiosità forte, solida e con una grande sensibilità per un “sacro” profondamente altro, eppur vicinissimo.
A queste suggestioni vanno aggiunte alcune caratteristiche architettoniche. La pianta è sempre a croce greca orientata sull’asse est-ovest con l’altare rivolto a est, è costante un ambiente centrale delimitato da quattro colonne-pilastri su cui si elevano archi talvolta a tutto sesto, talaltra leggermente a sesto acuto. Mi sono chiesto la ragione per cui sono sempre e solo quattro i pilastri e penso che la soluzione mi sia venuta a Norawank nella Chiesa di Surb Astvatsatsin dove in un ambiente quasi sotterraneo (questa chiesa è stranissima, con una ripida scalinata esterna che percorre in diagonale la facciata ai due lati dell’ingresso conducendo al piano superiore, dov’è l’altare) gli archi non sostengono la cupola ma il tetto dell’ambiente sovrastante; qui in corrispondenza di ogni campata sono scolpiti i quattro simboli degli evangelisti, quindi probabilmente il motivo per cui tutte le chiese posseggono questa struttura è da rintracciarsi in un fondamento evangelico (cosa che il mio amico Roberto, da buon teologo, aveva subito compreso senza vedere i fregi).


Su questi archi insiste sempre una cupola divisa in spicchi dal numero variabile e all’apice si trova l’oculo, all’esterno la cupola non è mai visibile rotonda ma sempre coperta da elementi che la trasformano in un cono o piramide. Mi soffermo un attimo sull’oculo. E’ incredibile come il nostro occhio abituato, o accecato, dall’illuminazione artificiale sia comunque immediatamente suggestionato dall’illuminazione naturale. Le chiese sono abbastanza buie, anche come detto per le pietre usate, la luce che arriva dall’alto ha quindi un’importanza enorme e ho voluto visitare San Giovanni Illuminatore, bella chiesa del X secolo, nel monastero di Hagadzin in due momenti diversi. In un caso, col cielo coperto, entrava un chiarore diffuso che si riverberava sulle pareti senza che la luce s’imponesse con forza, anzi una sorta di aerea gentilezza sembrava caratterizzare tutto l’edificio, ma quando il sole brillava nel cielo senza nuvole la luce entrava con un fascio netto, deciso, tagliente e illuminava con irruenza la parte della chiesa che colpiva.
Se nel primo caso sembrava quasi di assistere a un alleggerimento dell’edificio, nel secondo c’era qualcosa di caravaggesco, metafisico, qualcosa che non poteva non evocare l’inizio del Vangelo di Giovanni (“In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre” 1,4-5). L’altare non è mai posto sotto la cupola ma al fondo del braccio contrapposto all’entrata e, particolare di notevole interesse liturgico, non è mai a livello del terreno ma sempre sopraelevato, quando addirittura posizionato in un altro ambiente a cui si accede dietro una parete divisoria. In tal modo risulta netta la separazione tra celebrante posto in alto e che dà le spalle ai fedeli e i partecipanti al rito in basso e sempre in piedi, o in ginocchio, ma mai seduti non essendovi banchi. Ho avuto modo di assistere al rito solenne a Echmiatsin, la residenza del Katholikòs, e colpisce il continuo canto che caratterizza il rito, ma anche in questo caso il rito ha modellato l’architettura perché queste chiese posseggono un’acustica straordinaria.


Al Monastero di Geghard, ponendosi al centro dell’ambiente, in corrispondenza all’oculo, il canto si spande per tutta la chiesa con una potenza e anche dolcezza che ha del commovente: non è solo forza, vi è in questo caso come un delicato e armonico crescere su se stesso della voce, un potenziarsi che ha dell’ineffabile, un’asciutta capacità di evocazione dell’Altro. Spesso le facciate delle chiese ricordano quel ruolo di cerniera tra oriente e occidente al quale si è già accennato.

A Saghmosawank, realizzato nel XIII sec., il portale contiene in sé motivi orientali (stelle che richiamano quelle di David, un arco carenato) all’interno di una facciata in cui si presentano elementi, come l’arco a tutto sesto, che sembrano rimandare alla contemporanea arte europea. Mentre nella chiesa di Surb Karapet a Norawank l’ingresso è sormontato da una Madonna in trono con bambino che ricorda direttamente le sculture romaniche ma con in più un ricchissimo motivo floreale che avvolge le figure e che sembra evocare l’arte persiana. Si potrebbero aggiungere moltissimi altri elementi ma mi preme sottolinearne uno che non ha giustificazioni estetiche.
Spesso nelle pareti posteriori delle chiese vi sono come delle nicchie che percorrono in tutta la sua altezza l’edificio: sono elementi antisismici che alleggeriscono la struttura dandole elasticità; rendono bene l’idea dell’ingegno armeno e del problema dei terremoti che hanno devastato a più riprese queste regioni. Un caso a sé per l’importanza e la storia del sito è quello di Khor Virap, vero e proprio monastero-fortezza a ridosso della frontiera turca e di fronte all’Ararat. Su queste colline vulcaniche il monastero è solo l’ultimo atto di una storia quasi trimillenaria. Se la chiesa Astvatsatsin risale al XVII sec. il sito era già utilizzato in epoca urartea (dal IX-VIII sec. a.C.), divenne poi la capitale del regno armeno col nome di Artaxata. Qui si combatté la battaglia decisiva tra Lucullo e Tigrane II nel 68 a.C. (partecipò alla campagna, secondo Appiano e Plutarco, un comandante di cavalleria di nome Pomponio, forse quindi qualcuno della mia famiglia era già stato in Armenia!), fu presa nel I sec. d.C. dal generale romano Corbulone e rimase capitale dal 189 a.C. al 428 d. C.: è difficile pensare un luogo dove la storia sia più presente.

Alcune riflessioni, in chiusura, sui Khachkar, le croci di pietra. Sono un prodotto tipico dell’arte armena e se ne vedono tantissimi, di tutte le dimensioni e tutti impressionanti, alcuni con il bordo superiore ripiegato su se stesso come protezione contro le intemperie (sono i più recenti); in essi si rende particolarmente percepibile quell’incontro con motivi orientali a cui spesso si è fatto cenno. Nel blocco di pietra rettangolare è incisa una croce che, nelle quattro estremità, tende a biforcarsi dando vita a motivi floreali o ispirati all’uva. Sotto la croce possono esservi altri motivi come rosoni o altre foglie che si dipartono dal basso. E’ un certosino lavoro di intaglio con decorazioni labirintiche, una ricerca dell’ornamento che vuole mostrare come dalla croce fiorisca la vita, come l’eternità (simboleggiata dal rosone o dal cerchio posto sotto la croce) si manifesti nella Croce stessa.

I tappeti persiani con motivi floreali hanno un aspetto simile, ma qui è il simbolo del Cristianesimo ad essere fons vitae. E mentre nelle rappresentazioni della Passione spesso sotto la Croce si trova il Cranio (Golgota), qui è dall’eternità che promana la salvezza attraverso la Croce. Con i suoi ghirigori nella pietra, i suoi intarsi, i suoi giri, il suo intrecciarsi in percorsi senza fine e continuamente ripiegantisi su se stessi, il suo fiorire debordante da ogni limite, l’ornamento del Khachkar ci narra qualcosa di noi e del labirinto che in noi è e che noi siamo.
[continua]

Le foto sono di Nicola F. Pomponio

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