“Nel segno di Mamma e Papà” – Intervista a Jacopo Fo

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di Anna Rubino

Ha personalità da vendere Jacopo Fo, primogenito del Premio Nobel Dario e dell’attrice Franca Rame. «Mi piace fare tutto. Come loro, che inglobavano tante attività, spendendosi al massimo in ognuna», dice. E ci parla pure della passione per il green nata “per colpa” dei capelli

Se si è figli dell’attrice Franca Rame e del premio Nobel per la Letteratura Dario Fo, la loro preziosa eredità culturale e artistica può risultare ingombrante e di difficile gestione. Non così è stato per il figlio della coppia, Jacopo Fo, nato nel 1955: lui costruisce da giovane una propria identità, tenendo dritta la barra di un cognome da ricordare.

Hai esordito come scenografo e costumista lavorando in teatro con papà.
«Con mio padre Dario creavo le maschere, pezzi di scenografie e complementi di arredo come i pupazzi. Sono così permeato da quello che ha costruito il suo mondo, che mi sono messo a fare l’attore. Ricordo l’atmosfera divertente e io che spiavo da dietro le quinte, quando durante le pause scolastiche potevo finalmente seguire i miei genitori, dato che normalmente stavo con le nonne. Con naturalezza, mi sono impossessato di ciò che ho respirato da quando ho memoria».

Sei scrittore, blogger, fumettista, attivista, regista: c’è un ambito in cui ti senti più a tuo agio?
«Mi piace fare tutto, come a mio padre e a mia madre, che inglobavano tante attività, spendendosi al massimo in ognuna. Del resto l’arte è una somma di manifestazioni».

Hai vissuto un certo periodo a Roma.
«Anni di intenso attivismo politico, confluito, a soli 22 anni, nella fondazione de Il Male, creato con Vincino, con cui lavoravo a Lotta Continua occupandomi dell’inserto satirico L’avventurista. L’esperienza è durata dal 1977 al 1982, un quinquennio formativo, in cui ho voluto dimostrare a me stesso che potevo farcela senza usare il cognome Fo: mi firmavo Giovanni Karen e trovavo gratificante il successo ottenuto senza scorciatoie».
 

Da Roma ti sposti in Umbria.
«Vivo in un paese dal nome buffo, Casa del Diavolo, tra Perugia e Gubbio. Desideravo ossigeno, ma l’amore per la campagna nasce per una ragazza con cui passo un capodanno memorabile. In più, ero uscito da anni pesanti per la mia famiglia. Nel 1973 c’era stato il rapimento di mia madre, e cercavo una situazione che mi consentisse di vivere in modo tranquillo».

Gestisci e hai fondato nel 1981 la “Libera Università di Alcatraz”.
«Era ed è ancora un centro culturale. Fatto salvo che il 1968 e le idee di rivoluzione fossero un’allucinazione di massa, ho voluto creare, come in un monastero medievale, un luogo ameno dove lavorare sulle coscienze e poter veicolare le grandi idee».

Hai un’intensa carriera da scrittore.
«Nel 1980 progetto un ciclo di 22 libri, L’Enciclopedia Universale, Come quella di Diderot, ma più sexy. L’unica rilegata ancora viva, pubblicando il primo volume Come fare il comunismo senza farsi male. Ognuno, racconta un percorso, e in realtà ho sorpassato il mio stesso progetto, arrivando a scrivere 30 opere, tra l’altro molto vendute, citando tra tutte Lo zen e l’arte di scopare».

Numerose le tue iniziative “green”: sei un’ecologista convinto.
«Comincio a mangiare biologico per problemi di salute: perdevo i capelli, avevo sul viso un’acne devastante ed ero tormentato dal mal di schiena. Da un percorso di benessere, ho sviluppato la passione per i temi ecologici, che legano l’alternativa economica al rispetto del pianeta. È stato un modo diverso di fare politica, antesignano»

Come guardi al tuo passato di attivista?
«La partita politica si è vinta su tutti i fronti! Basta osservare, per esempio, l’attenzione al biologico, alla parità di genere, al rispetto per l’infanzia. Messaggi forti, veicolati dalle lotte del ’68. Quindi sono contento di aver creduto in idee che hanno migliorato la condizione di tutti».

Ti si vede a volte quale opinionista in tv: la realtà politica sociale italiana perché è così in crisi?
«Io la vedo diversamente: 50 anni fa la situazione era più terribile di oggi. Berlusconi era peggio di Salvini! E usciamo da una crisi durata 10 anni, in cui ci si ritrova in un mondo che è cambiato grazie a Internet. La gente è frastornata e vince chi specola abilmente sulla paura. Il problema culturale, prima che politico, è che non è forte chi ci sta governando, ma è debole la sinistra, che ha smesso di credere nella forza della cooperazione, da cui è nato il boom economico degli anni 60».

I tuoi progetti?
«A settembre esce per Guanda il libro Com’è essere figli di Dario Fo e Franca Rame. Ne ho tratto un monologo teatrale, per la regia di Felice Cappa, con cui girerò l’Italia».

Hai due figlie, Mattea e Jaele: che tipo di padre sei?
«Mi ha influenzato l’esempio ricevuto. Mio padre, contro la necessità del sacrificio, mi ha insegnato la necessità della passione, molto difficile da portare avanti. Soddisfare i bisogni interiori attraverso il lavoro, seguire i sogni, non è un percorso facile. Ricordo ancora l’unica volta che ho sgridato mia figlia: la minaccia è sterile e blocca l’interesse creativo. Adesso Mattea ha 31 anni, fa la manager e gestisce molte attività ad Alcatraz, organizzando mostre dedicate a mio padre. Mi ha reso trinonno di Matilde che ha 12 anni, e di due piccoli gemelli, Giovanni e Alessandro. Invece la secondogenita Jaele, che di anni ne ha 22, studia Scienze della Comunicazione, e recita a teatro»

Cosa racconti dei nonni Franca Rame e Dario Fo?
«Li hanno frequentati e condiviso tanto con loro, ma dato che sono un chiacchierone, rievoco storie di tutti i tipi, senza risparmiarmi».

E l’amore?
«Ma dell’amore è meglio non parlarne! Cosa ti può dire uno come me che, finito un matrimonio, è appena uscito da un fresco e complicato divorzio?».