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Pandemia climatica

La pandemia da Covid-19 ha molti paralleli con la crisi climatica e le rinnovabili potrebbero essere uno dei punti chiave per entrambe

Pandemia
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Rinnovabili, pandemia e post Covid. Una relazione che potrebbe suonare azzardata, ma che riflettendo un poco più in profondità non è così poi così distante. Prima, però, è necessario analizzare a fondo ciò che sta succedendo sia su fronte delle pandemie, sia sotto il profilo della crisi climatica e della “soluzione” delle rinnovabili, mettendo per un attimo da parte gli aspetti sanitari e ambientali.

Per costruire uno schema valido in questo scenario, infatti, è necessario, affrontare prima di tutto gli aspetti sociali che sottointendono a questa relazione. Vediamoli. La crisi virale e quella climatica, sotto al profilo sociale, hanno molti aspetti in comune, al punto che per quanto riguarda i cambiamenti climatici d’ora in avanti userò il termine “pandemia climatica”.

Virus e clima che cambia, infatti, possiedono dinamiche sociali e psicologiche molto simili. Si tratta, prima di tutto, di eventi estremi che colpiscono le persone nella propria individualità o le cerchie ristrette con esiti drammatici e spesso fatali che mettono a dura prova la coesione sociale, la quale è già ai minimi storici a causa dell’individualismo e dell’economia esclusivamente di mercato degli ultimi decenni.

Con delle differenze su fronte dell’impatto su fronte psicologico. La pandemia virale fa presa sulle paure derivate da un passato di pestilenze che hanno lasciato una traccia per così dire “genetica” nella memoria sociale, mentre la pandemia climatica stenta e rappresentarsi come “pericolo”  causa del suo carattere inedito ed proiettato verso il futuro. Ma entrambe possiedono un forte carattere sanitario.

Quella virale, infatti, ha riportato alla ribalta l’urgenza della preservazione dai colpi del mercato della sanità e della ricerca medica pubbliche, mentre quella climatica delinea la necessità di un adattamento sociale agli eventi estremi, come dimostra l’analisi del sociologo Pascal Acot, nel suo volume “Catastrofi climatiche e disastri sociali” della canicola in Francia del 2003 che fece, dati del Servizio Sanitario francese, oltre 20mila morti. Pascal Acot nel suo volume mette in luce le disparità tra i ricchi del centro di Parigi e i poveri delle banlieue che hanno subito un tasso di mortalità molto maggiore dei primi, oppure le differenze, sempre nel tasso di mortalità e a pari temperature, tra i belgi e francesi, con i primi che morirono meno dei secondi, a causa del migliore sistema sanitario. Fenomeni che sono analoghi a quelli legati a Covid-19 e dei quali si dibatte in questo periodo.

Aspetti comuni

Questa relazione tra incentrata sugli aspetti sanitari e sociali comuni ai due fenomeni deve essere il punto cardine in una nuova logica d’azione politica rispetto alle questioni climatiche, se si vuole che le forze ambientaliste, le uniche che possono fare ciò – riescano a imporre un’agenda efficace sui cambiamenti climatici. Ma si tratta di un terreno ancora in gran parte “ignoto” a chi si è occupato di ambiente in questi anni nel nostro Paese.

Welfare, salute – con l’eccezione dell’aspetto legato all’inquinamento, lavoro, processi produttivi, sono aspetti fondamentali – ai quali i cittadini sono estremamente sensibili – che sono appartenuti “storicamente” al cosiddetto “blocco sociale” della politica, i cui effetti vediamo ancora oggi nelle affermazioni, per esempio, di Fausto Bertinotti che pochi giorni fa su La Repubblica ha affermato che: «sostituire la lotta di classe con l’ecologismo sarebbe una catastrofe», bocciando una qualsiasi rielaborazione della “lotta di classe” in una “lotta di classe ecologica”.

All’ex leader di Rifondazione Comunista ha replicato Luciana Castellina che sul Manifesto ha detto «su questo il mio dissenso non solo è totale ma avverto anche la necessità di renderlo esplicito perché se tale giudizio fosse preso sul serio potrebbe costar caro alla sinistra tutta».

Al di la della polemica politica questi dibattito pone un problema che la Castellina ha ben chiaro, e infatti afferma: «[…]il problema è aperto, e chiede chiarezza: no, il green capitalism non è possibile, piaccia o non piaccia. Perché la rivoluzione ecologica – e adopero coscientemente questa parola pesante – presuppone la fine della centralità del suo organismo più delicato ed essenziale – il mercato […] chi ha goduto del profitto immediato non è nelle stesse condizioni di chi lo ha subito. […] il «verde» è parola che piace a tutti ma poi chi dovrebbe e potrebbe farsi sul serio carico di sostenere le misure atte a rendere fattibile il suo progetto […]». E in questo scambio di battute risiede il nocciolo della questione.

 

Crisi di mercati

Come con la pandemia da Covid-19 è andata in crisi la gestione di “mercato”della sanità, così di fronte alla prossima “pandemia climatica” andranno in crisi fette ben più importanti della società planetaria. Proviamo a ragionare, in queste poche righe, solo sul concetto valore.

Il Covid-19 ha mandato in crisi profonda l’economia mondiale per una “semplice” diminuzione contenuta entro il 20% dei Pil nazionali, a causa di una crisi contemporanea di domanda e offerta di beni superflui. Nessuna infrastruttura logistica o energetica è stata danneggiata, così come le abitazioni e le filiere produttive di merci, servizi e cibi, non sono state toccate.

E sono tutti aspetti che producono “valore”, per come lo intendiamo nell’economia di oggi e saranno coinvolti in maniera “pesante” dalle prossime pandemie climatiche. Dal dibattito di cui sopra, quindi, si nota che in “passi avanti” nell’interpretazione delle crisi future, ponendo modelli alternativi, sono vicine allo zero.

E si sta affacciando ora quella che con ogni probabilità sarà l’ultima occasione per avviare un simile processo: quello delle comunità energetiche. Le comunità energetiche saranno un’occasione per ridefinire le modalità di produzione dell’energia, esattamente come la pandemia da Covid-19 ci sta imponendo la revisione della socialità. Le nuove energie di comunità dovranno essere rinnovabili, gestite a livello locale dal basso e con un costo marginale tendente allo zero.

Ossia perderanno di valore come “mercato” acquistandone come servizio, dai cittadini per i cittadini, e saranno il banco di prova per una vera ridefinizione del paradigma produttivo del quale sentiamo parlare da anni con il termine ormai molto abusato “sostenibilità”, ma del quale non vediamo nulla all’orizzonte visto che la CO2 in atmosfera è passata dalle 356,45 parti per milione (ppm) del 1992, anno dell’Earth Summit di Rio, ai 416,18 ppm dell’aprile 2020, anno in cui si e rinviata, come se si potesse aspettare, la COP 26 di Glasgow a causa dell’emergenza Covid-19. E non abbiamo alibi.

Dati, potenza di calcolo, analisi, connessioni, riflessioni, da cui attingere ci sono tutti e in quantità inimmaginabili solo qualche decennio fa. Ora c’è da innescare la volontà politica e sociale, tenendole ben unite, perché separandole si creano solo degli alibi per la sconfitta delle prossime pandemie.

Sergio Ferraris, giornalista scientifico, direttore della rivista di Legambiente QualEnergia

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