IL DETERMINANTE RUOLO DELLA RICERCA E DELLA SPERIMENTAZIONE

Per prevenire e curare importanti patologie gli animali sono sempre stati il principale punto di riferimento e di grande utilità. Ma ciò comporta la comprovata e assoluta mancanza di alternative, e in ogni caso la rigida osservanza etica a tutela degli stessi

di Ernesto Bodini (giornalista scientifico e biografo)

Ogni qualvolta si parla di malattie e di farmaci per prevenirle o per curarle, inevitabilmente si tira in ballo il lavoro (soprattutto in ambito medico-scientifico) dei ricercatori, delle sperimentazioni e quindi anche dell’etica… oltre che dei profitti. Da un po’ di tempo nel nostro Paese (ma anche in altri) è in discussione, secondo quanto riportato più volte da vari mass media, il noto Progetto  Light Up, a cui collaborano le Università di Parma e Torino. La questione riguarda la liceità o meno sulla sperimentazione con alcuni macachi ospitati all’interno degli stabulari dell’Università di Parma. Tale progetto è stato anzitempo valutato e approvato dai vari Enti: European Research Council e dal suo Comitato Etico, dal Comitato Bioetico dell’Università di Torino, dall’Organismo Preposto al Benessere Animale (OPBA), e dal Ministero della Salute previa valutazione favorevole del Consiglio Superiore di Sanità; oltre decine di esperti nell’ambito delle Discipline di Neuroscienze e Neuropsicologia. A tal riguardo, come riferisce l’Ansa il 28 gennaio scorso, il Consiglio di Stato ha confermato in via definitiva la validità dell’autorizzazione rilasciata dal Ministero della Salute per il Progetto Light Tup dell’Università di Torino in collaborazione con quella di Parma per una necessaria sperimentazione su macachi. Ma su questa conferma gli animalisti e quanti simili a loro obiettano da tempo, tant’è che a detta di un gruppo di studenti universitari provenienti da diversi Atenei, hanno redatto una lettera con la quale informano che da mesi si assiste ad un attacco indegno ai danni dei ricercatori coinvolti nel progetto, con insulti ed accuse di essere al servizio di multinazionali e case farmaceutiche, e con l’aggravante di incitamento all’odio e minacce di varia natura. «Con il nostro testo – precisano gli autori del comunicato-lettera, peraltro da tempo di dominio pubblico – desideriamo esprimere il nostro profondo rammarico per la situazione creatasi. In particolare reputiamo che la violenza vada condannata in tutte le sue forme, fisiche e verbali. Esprimere le proprie opinioni, nel rispetto di quelle altrui, è un fondamento insindacabile della vita collettiva e crediamo fortemente che non debba essere negato a nessuno». Va da sé che il rispetto della divergenza di opinioni è indice di democraticità e in nessun caso giustifica contestazioni che non siano consone ad un comportamento rispettoso, come del resto si conviene ad ogni società civile; in caso contrario equivarrebbe ad una sorta di guerra fratricida… come se l’umanità non ne avesse subite abbastanza nel corso dei secoli (sic!). Gli estensori rammentano inoltre, per chi non fosse a conoscenza, che esiste una legge in proposito (art. 1, co. 2 del Dlgs 26 del 4/3/2014), la quale testualmente recita: «È consentito l’utilizzo degli animali ai fini scientifici o educativi soltanto quando, per ottenere il risultato ricercato, non sia possibile utilizzare altro modo o una strategia di sperimentazione scientificamente valida, ragionevolmente e praticamente applicabile che non implichi l’impiego di animali vivi». Contestualmente va detto che taluni fanno confusione sui termini “vivisezione” e “sperimentazione animale”: mentre nel primo caso (vietata per legge) ha una connotazione estremamente negativa in quanto implica tortura, dolore e morte; nel secondo si indicano tutte le tecniche di ricerca che prevedono l’impiego di animali vivi a scopo scientifico; tale utilizzo può avvenire in ambito farmacologico, fisiologico, fisiopatologico, biomedico e biologico. Pur non volendo approfondire ulteriormente il contesto delle parti “in opposizione” per non aver seguito l’intera vicenda sin dall’inizio, ritengo però utile richiamare l’attenzione su qualche esempio che in fatto di sperimentazione ha fatto storia, sia dal punto di vista delle conoscenze che dei risultati scientifico-terapeutici per l’essere umano. Per giungere al risultato finale del trapianto di cuore tra esseri umani il cardiochirurgo Christian N. Barnard (1922-2001), che ho conosciuto ed intervistato, ha fatto molta ricerca e sperimentazione avvalendosi solitamente di cani; un “contributo” praticamente inevitabile, pur considerando che all’epoca in sud Africa vigeva l’Apartheid.

Ulteriormente significativo il lavoro del polacco Albert B. Sabin (1906-1993, nella foto), scopritore del vaccino contro la poliomielite. Al Children’s Hospital Research Foundation dell’Università di Cincinnati (Ohio), che aveva finalizzato le ricerche alla messa a punto di una sospensione di virus attenuati. Per questo, fin dal 1951 trasformò il suo laboratorio in una specie di zoo privato, ricco di 9 mila scimmie e 140 scimpanzé sui quali lo studioso sperimentò la virulenza di nuovi ceppi che si andavano formando. Nel 1953 riuscì ad individuarne 2.700 tipi diversi, tra i quali 12 sino ad allora sconosciuti. Con questi preparò un primo vaccino che sperimentò sugli scimpanzé, con esito positivo. Poi passò all’uomo: inizialmente su se stesso, sulle due figlie, sui suoi tre collaboratori, su un gruppo di detenuti volontari e su alcuni suoi vicini di casa. Contemporaneamente anche lo statunitense Jonas E. Salk (1914-1995) realizzò tre vaccini contro i tipi I-II-III del poliovirus, utilizzando virus coltivati su rene di scimmia e inattivati con la formaldeide. La loro presenza aveva indotto nelle scimmie la produzione di anticorpi, il che significava che l’organismo si era immunizzato contro la poliomielite. Ma già nel 1931 il ricercatore inglese Maurice Brodie (1903-1939) riuscì ad immunizzare le scimmie di laboratorio con un vaccino inattivato con la formalina, e lo usò anche sull’uomo provandone l’innocuità. Anche Heloisa Dunshee de Abranches (1917-2016, vedova di Sabin) negli anni ’90 si è espressa sul problema della sperimentazione animale a tutela delle vite umane e, in occasione di alcuni suoi interventi pubblici, precisò: «Coloro che hanno beneficiato direttamente della ricerca sulla polio, compreso il lavoro di mio marito, pensano che vincere la vera guerra contro la polio sia stato altrettanto semplice, abbracciando un movimento che denuncia lo stesso processo che ha permesso loro di aspettarsi una buona salute e un futuro promettente». Una ideologia dei “diritti degli animali”, secondo Heloisa Sabin, che era vicina a gruppi come il “People fo the Ethical Treatment of Animals, il “The Human Society of U.S.” e il “Fund for Animals”, contro chi rigettava l’uso degli animali da laboratorio nella ricerca medica e negava il ruolo che tale ricerca ha avuto nella vittoria contro la polio. E a questo proposito lo stesso prof. Sabin, poco prima della sua morte, disse a un giornalista: «Non ci sarebbe potuto essere  nessun vaccino orale per la polio senza l’uso di innumerevoli animali, un numero enorme di animali». Queste affermazioni sono sempre state oggetto convegni e congressi internazionali, con il fine di trasmettere non solo l’importanza delle vaccinazioni, ma anche l’inevitabile considerazione dell’immane lavoro dei ricercatori… grazie anche alla disponibilità degli animali. «Mio marito – ebbe a precisare ancora la signora Heloisa Sabin – era un uomo gentile, ma era insofferente verso chi rifiutava di riconoscere la realtà o di cercare risposte ragionate ai problemi della vita. Della schiera di pionieri della ricerca sulla poliomielite hanno fatto parte non solo scienziati, ma anche gli animali da laboratorio che giocarono un ruolo fondamentale nel porre fine alla polio e nell’arrestare molte altre malattie per le quali oggi abbiamo vaccini e cure. Gli animali continueranno ad essere una parte tanto vitale quanto gli stessi scienziati che li studiano nella battaglia per eliminare il dolore, la sofferenza e le malattie nelle nostre vite».

Un’altra parentesi scientifica, datata anni ’60 riguardo alla sperimentazione di animali a beneficio dell’uomo (anche se utilizzati non da vivi), merita essere ricordata. Periodo in cui il torinese prof. Pietro Giani (1904-1963 nella foto), stimato cattedratico oculista e primario per 25 anni all’ospedale Maria Vittoria, è stato il primo chirurgo nella storia dell’Oftalmologia italiana che abbia tentato innesti parziali di cornee appena enucleate degli animali all’uomo. In breve la storia. Nel 1961 l’illustre clinico, dopo oltre 150 studi sulla cornea con la collaborazione dell’aiuto dottor Tommaso Pansini (il cui compito era quello di procurare al suo primario da 30 a 40 bulbi oculari alla settimana, enucleandoli da animali destinati al mattatoio), aveva ripreso in esame la possibilità di praticare etero innesti, rimettendo in discussione un vecchio dogma, ossia l’impossibilità di usare cornee per trapianti corneali sull’uomo. Servendosi appunto di cornee trattate con la silico-dissecazione, il prof. Giani eseguì i primi due interventi il 15 aprile 1961, seguiti da altri sei prima di giugno: innesti di cornea fresca di cane perfettamente riusciti su sette pazienti. Dopo aver accertato che il paziente era cieco per scomparsa della trasparenza corneale (a causa della cheratite herpetica, una malattia virale che colpiva l’uomo e alcuni animali a causa del virus herpes simplex), l’intervento del “pioniere” consisteva nella asportazione parziale della cornea opaca e nella sostituzione con una cornea trasparente di vitello, cane o cavallo, effettuando così l’innesto: unico rimedio, perché allora non esistevano ancora appropriati farmaci antivirali. Con questa metodica il prof. Giani ha ridato la vista a decine di persone affette da esiti cicatriziali causati da leucoma corneale contrastando il problema del rigetto che venne ben “controllato”. Confortato da questi risultati il clinico si convinse che la cheratoplastica poteva tentare altre strade, sostenendo che il tessuto corneale animale, soprattutto del cavallo, può essere trapiantato in sede non solo extracorneale ma anche extraoculare per plastiche mucose e cutanee. Dopo la morte del prof. Giani, a soli 59 anni, l’indicazione di innesto di cornee animali per il trattamento della cheratite herpetica non ebbe seguito, probabilmente per lo “scarso interesse” scientifico, ma soprattutto perché alcuni anni dopo sono stati realizzati nuovi farmaci antivirali in grado di curare tale affezione. Ora, alla luce di questi esempi di grande rilevanza scientifica risolutiva, accanirsi contro la sperimentazione per mera ideologia o più semplicemente per partito preso, sia pur con intendimenti protezionistici del regno animale, è un atteggiamento razionalmente poco obiettivo privo delle necessarie conoscenze storico-scientifiche e, in tal senso, preciso che clinici autorevoli come C. Barnard, A. Sabin e P. Giani, ad esempio, hanno sempre rispettato la “cavia animale”, sia pur sottoponendola a sperimentazione (che nulla ha a che vedere con la vivisezione). E per quanto doloroso sia avvalersi della collaborazione passiva di questi animali per lo sviluppo della scienza medica, non credo che né Sabin, né Barnard, né Giani ed altri scienziati succeduti nel tempo, non abbiano avuto per loro ogni volta un senso di pietà e di rispetto. Vorrei concludere, rivolgendomi a quanti dissentono sulla sperimentazione animale, sia pur a scopo terapeutico per l’uomo, che se in taluni permane lo stato di ignoranza essi non possono ritenersi i più idonei ad affrontare il problema. E agli agguerriti-oppositori rammento che l’uomo più potente è quello che riesce a trasformare il nemico in un fratello… ricercatori, e animali compresi!

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