20 Feb 2023

Gli allevamenti di maiali in Spagna sono diventati un grosso problema – #672

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Gli allevamenti di maiali in Spagna stanno diventando un vero e proprio problema sociale, sanitario e ambientale, oltre ad aver quasi monopolizzato il grano ucraino che avrebbe dovuto aiutare i paesi più poveri. Parliamo anche di un nuovo interessante studio sugli effetti che la narrazione climatica ha sul clima stesso, della siccità in Italia e di una decisione molto interessante del governo del Galles su una serie di nuove strade, che dovevano essere costruite.

Ancora il Guardian, qualche giorno fa ha pubblicato un reportage sulla vera e propria invasione di allevamenti di maiali in Spagna, reportage poi ripreso anche da molti giornali italiani fra cui GreenMe e il Post. 

Scrive Rosita Cipolla su GreenMe: “In un’era in cui la lotta all’inquinamento rappresenta una sfida prioritaria per il Pianeta, ci sono Paesi che non solo continuano a investire nel sistema d’allevamento intensivo, ma lo stanno addirittura rafforzando ulteriorimente. Fra questi spicca la Spagna, che rappresenta il più grande produttore di carne suina a livello europeo. Soltanto nel 2021 sul territorio spagnolo sono stati macellati ben 58 milioni di maiali: in pratica i suini allevati in un anno superano la popolazione, pari a 47 milioni di abitanti. Nell’ultimo decennio si è assistito ad un aumento del 40% dei suini destinati al macello.

E questa situazione sta avendo un impatto pesantissimo sia a livello ambientale che sociale, specialmente nei piccoli comuni (al di sotto dei 5mila residenti), dove c’è stato un boom di aperture di allevamenti intensivi suinicoli, come confermato anche da una recente inchiesta realizzata dal Guardian. “Siamo invasi dai maiali” commenta Natividad Pérez García, sindaca di Balsa de Ves, paesino spagnolo di circa 100 anime che sorge a circa 100 km da Valencia. Qui nei capannoni vengono allevati fino a 100mila esemplari l’anno.

“Si contano più di 800 maiali per ogni residente” ribadisce la prima cittadina. Ai microfoni del Guardian Natividad Pérez García ricorda quando nel 2006 un rappresentante dell’industria zootecnica si presentò a una riunione del consiglio, illustrando le conseguenze positive che avrebbe avuto l’apertura dell’allevamento sulla crescita demografica. Ha detto che saremmo stati l’invidia dei villaggi circostanti. – spiega con l’amaro in bocca – Che il mondo avrebbe voluto venire a vivere qui e che avrebbe riaperto la scuola e avremmo spazi verdi.

Tutte speranze tradite. Anzi è successo l’esatto contrario: la popolazione è andata a diminuire. Un incubo per i piccoli comuni rurali (dove l’aria è diventata irrespirabile)

Come svelato da uno studio condotto nel 2021 dalla confederazione Ecologistas en Acción, lo stesso fenomeno si è verificato in almeno il 74% dei piccoli comuni in cui vi sono sorti allevamenti intensivi e dove il numero dei maiali supera di gran lunga quello dei residenti.

Per Balsa de Ves il via libera all’allevamento di suini è stato solo l’inizio di un incubo. Da allora in questa cittadina, così come in tante altre della Spagna, l’aria è diventata irrespirabile e il tasso di inquinamento è cresciuto in modo allarmante. A confermarlo anche un test condotto da Greenpeace lo scorso maggio proprio a Balsa de Ves. Dalle analisi è emerso che una delle cinque fonti idriche del villaggio presentava un livello di nitrati di 120 milligrammi per litro, oltre il doppio rispetto al limite (pari a 50 mg/l) imposto dalla direttiva UE.

Ciò ha costretto la sindaca a vietare agli abitanti l’utilizzo dell’acqua dalla sorgente, proprio a causa della presenza di nitrati contenuti nel letame proveniente dall’allevamento, che finisce per contaminare terreni e falde acquifere. Ha senso tutto questo? – conclude la prima cittadina di Balsa de Ves.

Sullo stesso argomento, un articolo di Greenreport fa luce su un aspetto diverso. L’articolo è abbastanza esplicito fin dal titolo, che recita: “Il grano e il mais ucraini sono diventati mangime per maiali spagnoli, invece di cibo per i più poveri del mondo” e racconta come buona parte del grano sbloccato dopo grossi sforzi diplomatici sia finito proprio a ingrassare i maiali spagnoli. 

“L’Unione europea si è battuta insieme all’Onu per realizzare un corridoio navale per far uscire grano e mais  dall’Ucraina nonostante la guerra, in modo da alleviare la carestia in corso in alcuni Paesi poveri, in particolare nel Corno d’Africa e nello Yemen. Ma un’indagine pubblicata dal giornale austriaco eXXpress  rivela che «Il grano difficilmente arrivava lì, invece raggiunge principalmente la Spagna  come mangime per l’allevamento di maiali». 

eXXpress ricorda che «Senza il grano del granaio d’Europa, l’Ucraina, ci sarebbe una carestia catastrofica nei Paesi più poveri dell’Asia e dell’Africa. Questo è stato l’argomento principale dell’Ue nei negoziati con la Russia su ulteriori esportazioni di milioni di tonnellate di grano attraverso un corridoio verso la Turchia. Putin ha accettato e la partenza delle prime navi è stata celebrata in tutto il mondo. Tuttavia, a quanto pare, il prezioso grano non è stato consegnato ai Paesi più poveri del mondo, come riportato da Focus e Handelsblatt. Invece, il principale acquirente sarebbe stato la ricca Spagna, sebbene gli iberici producano abbastanza grano per i propri bisogni. 

Ma la Spagna è uno dei maggiori produttori di carne di maiale al mondo, ci sono finite 2,9 milioni di tonnellate di grano e mais dall’Ucraina. In compenso, quasi nessuna consegna è finita nel Terzo Mondo. Solo il 15% delle attuali esportazioni ucraine va lì. L’Etiopia ha dovuto accontentarsi di 167.000 tonnellate di grano, il Sudan di 65.000 tonnellate». Secondo  eXXpress la spiegazione è semplice: «La Spagna ha pagato più soldi e l’Ucraina ha consegnato».

Ora, la situazione è abbastanza paradossale. Abbiamo i piccoli comuni spagnoli che non ne vogliono più sapere di allevare maiali ma si ritrovano incastrati, abbiamo il grano ucraino che invece di sfamare i paesi con gravi carestie finisce agli allevamenti intensivi di maiale, abbiamo un’opinione pubblica che negli ultimi anni in tutta Europa si è molto sensibilizzata sui temi dell’alimentazione e dei diritti animali. Ma allora perché continuiamo a fare queste assurdità?

Credo che ci siano due risposte. la prima la più scontata e banale, sono gli interessi economici: di sicuro qualcuno sta facendo montagne soldi con gli allevamenti intensivi, questo è fuori discussione, ma non credo che basti a spiegare tutto ciò, e non credo nemmeno che sia la spiegazione principale. Credo che il motivo principale sia ancora più scoraggiante: inerzia. È oggettivamente complicato, e richiede creatività, inventiva, tempo, sperimentazione, immaginare un abbandono degli allevamenti intensivi che non lasci a casa le persone senza un lavoro, che immagini cosa fare con questi milioni e milioni di animali, e tanti altri aspetti che adesso nemmeno immagino.

Eppure, come recita anche uno dei pay off di Italia che Cambia, è fondamentale non chiederci se ma come. Come facciamo ad abbandonare questo modello insostenibile per noi, per gli altri animali, per gli ecosistemi? Come facciamo a iniziare subito e a non rimandare la decisione?

Restiamo abbastanza in tema perché è uscito uno studio che spiega, o perlomeno integra la riflessione appena fatta sulla complessità della transizione ecologica. E soprattutto ci dice qualcosa sul perché sarebbe stato meglio iniziarla 60 anni fa, e di sicuro dobbiamo farla ora e il più rapidamente possibile. Damian Carrington, una delle principali firme sull’ambiente del Guardian, racconte del nuovo “rapporto di un thinktank avverte che il mondo rischia di cadere in un “circolo vizioso” climatico. Secondo il rapporto, la semplice gestione dell’impatto crescente della crisi climatica potrebbe sottrarre risorse e attenzione agli sforzi per ridurre le emissioni di carbonio, peggiorando ulteriormente la situazione”.

“I danni causati dal riscaldamento globale in tutto il mondo – spiega il rapporto – sono sempre più evidenti e il recupero dai disastri climatici sta già costando miliardi di dollari. Inoltre, questi disastri possono causare problemi a cascata, tra cui crisi idriche, alimentari ed energetiche, nonché un aumento delle migrazioni e dei conflitti, il tutto prosciugando le risorse dei Paesi”.

Il concetto interessante di questo studio è che prova a misurare gli impatti sia diretti che indiretti della crisi climatica, sulla lotta alla crisi climatica. Si tratta dei cosiddetti cicli di retroazione, elementi in genere poco considerati ma assolutamente centrali. L’altro aspetto interessante è che non considera solo i fenomeni più tangibili, tipo le crisi idriche e alimentari, ma anche ad esempio come la narrazione sul clima influenza la risposta alla crisi. Vi faccio qualche esempio tornando a leggere l’articolo.

I ricercatori, dell’Institute for Public Policy Research (IPPR) e di Chatham House, hanno affermato che un esempio di come l’impatto della crisi climatica complichi gli sforzi per ridurre le emissioni è il dibattito sulla possibilità di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di 1,5°C.

Secondo i ricercatori, chi sostiene che 1,5°C sia ancora possibile rischia di coontentarsi del ritmo attuale della transizione e non percepisce la fretta necessaria, mente chi sostiene che non l’obiettivo sia ormai irraggiungibile rischia di sostenere il fatalismo sul fatto che si possa fare ben poco, oppure di affidarsi ad “approcci estremi” come la geoingegneria.

Per evitare un circolo vizioso è necessario che i politici accettino con maggiore onestà i grandi rischi posti dalla crisi climatica, tra cui la prospettiva incombente di un punto di non ritorno così come l’enorme portata della trasformazione economica e sociale necessaria per porre fine al riscaldamento globale. A ciò si dovrebbe affiancare una narrazione che si concentri sui grandi benefici che l’azione per il clima comporta e che garantisca un’attuazione equa delle politiche.

“Siamo entrati, purtroppo, in un nuovo capitolo della crisi climatica ed ecologica”, ha dichiarato Laurie Laybourn, collaboratrice dell’IPPR. “Possiamo assolutamente puntare a un mondo più sostenibile e più equo. Ma la nostra capacità di navigare attraverso gli shock rimanendo concentrati sul superamento della tempesta è fondamentale”.

Il rapporto afferma che: “Si tratta di un circolo vizioso: le conseguenze della crisi [climatica] distolgono l’attenzione e le risorse dall’affrontare le sue cause, portando a temperature più elevate e a perdite ecologiche, che poi creano conseguenze più gravi, deviando ancora di più l’attenzione e le risorse, e così via”.

Lo studio ha evidenziato che, ad esempio, l’economia africana sta già perdendo fino al 15% del PIL all’anno a causa del peggioramento degli effetti del riscaldamento globale, riducendo i fondi necessari per l’azione climatica e sottolineando la necessità di un sostegno da parte dei Paesi sviluppati, che emettono la maggior quantità di anidride carbonica.

“Per il Regno Unito, la distrazione maggiore potrebbe non essere necessariamente il costo puro e semplice della risposta ai disastri. Piuttosto potrebbe dover affrontare contemporaneamente uno shock dei prezzi dei generi alimentari e la rinascita dell’isolazionismo per paura dei migranti climatici.

Laybourn ha affermato che le narrazioni utilizzate per descrivere la situazione sono molto importanti. Per esempio, ha affermato che un trasporto più ecologico non consiste semplicemente nel passaggio ai veicoli elettrici, ma in un migliore trasporto pubblico e in una riprogettazione delle città che permetta alle persone di essere più vicine ai posti di lavoro, all’istruzione e all’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno. Questo a sua volta significava rivalutare i bilanci e le tasse degli enti locali per attuare il cambiamento.

Laybourn ha affermato anche che l’iniquità della politica climatica potrebbe portare a un circolo vizioso, perché se le persone si sentissero costrette a cambiamenti inaccettabili, rifiuterebbero la necessità di una transizione verde. Ma ha aggiunto: “Se l’equità è al centro delle cose, si può invece creare un circolo virtuoso, se si è in una situazione in cui le persone riconoscono che passare a una pompa di calore e avere un isolamento migliore sarà meglio per loro, indipendentemente dalla crisi climatica”.

Anche la capacità di far fronte alle difficoltà poste dagli impatti climatici è fondamentale. “Sono un grande sostenitore delle assemblee dei cittadini, perché se le persone sentono di avere un ruolo nel processo decisionale, è più probabile che mantengano il loro sostegno, anche in un futuro in cui gli shock iniziano ad aumentare. Diventano momenti in cui possiamo effettivamente ricostruire meglio”, ha detto Laybourn, a differenza di quanto accaduto dopo il crollo del 2008 e la pandemia di Covid.

Ecco. Scusate se mi sono dilungato un po’ ma raramente escono studi così centrati e puntuali, e mi sembrava corretto dargli risalto.

A proposito di conseguenze della crisi climatica che iniziano a necessitare di sempre maggiori attenzioni, torniamo a parlare della siccità in Italia. Leggo su Wired: “Siamo ancora in inverno, ma in Italia l’allarme siccità è già ai livelli emergenziali della scorsa estate. Temperature record e assenza di piogge hanno asciugato il Nord Italia e le nevicate sono state assolutamente insufficienti per rifornire i corsi d’acqua. Sono gli effetti ormai costanti del cambiamento climatico causato dall’uomo, che hanno portato al 40% il territorio italiano esposto alla siccità estrema.

I dati sono quelli del Cnr, che hanno registrato il 40% di pioggia in meno al Nord durante il 2022 e un’assenza di precipitazioni significative durante il primo mese e mezzo del 2023. Il fiume Po è a secco e nella zona di Pavia si trova a meno 3,2 metri rispetto allo zero idrometrico, con le rive ridotte a spiagge di sabia. Stessa situazione drammatica anche per il fiume Adige, praticamente in secca nella zona tra Ala e Rovereto.

Emergenza che si riflette su tutti gli altri corsi d’acqua del settentrione, con i grandi laghi ridotti al minimo da percentuali di riempimento al 38% per quello di Maggiore, al 35% per quello di Garda e solo al 20% per quello di Como. Secondo Coldiretti ci troviamo in una situazione anche peggiore rispetto all’anno scorso per il settore agricolo, quando la siccità ha causato una perdita di 6 miliardi di euro nei raccolti.

La raccolta di acqua piovana è ferma appena all’11% e a rischio si trova un terzo della produzione agricola nazionale, concentrata nella zona della pianura Padana. Tra i settori più colpiti si troverà quello del riso, dove non potranno essere coltivati quasi 8 mila ettari di terreno a causa della mancanza di acqua.

I pericoli della siccità non si riflettono solo sulla sicurezza alimentare, ma anche direttamente sulla salute delle persone, in particolare dove la qualità dell’aria è particolarmente bassa, come le più grandi città del Nord Italia, congestionate dalle industrie e dalle automobili, e nell’intera pianura Padana.

Sempre sul tema siccità, un articolo di Greenreport sposta il focus su un altro aspetto importante: il crollo della produzione di riso: “Con 1,5 milioni di tonnellate all’anno, l’Italia garantisce da sola la metà dell’intera produzione di riso dell’Ue, con 9 risaie su 10 concentrate fra la Lombardia, Veneto e Piemonte: al nord però «è caduto il 40% di pioggia in meno rispetto alla media storica» secondo l’analisi condotta da Coldiretti su dati Isac-Cnr, col risultato che «verranno coltivati quest’anno in Italia quasi 8mila ettari di riso in meno per un totale di appena 211mila ettari, ai minimi da trenta anni».

Più avanti il giornalista si chiede: Che fare, oltre a mitigare la crisi climatica in corso tagliando le emissioni di gas serra antropiche? «Di fronte al cambiamento climatico è necessario realizzare un piano invasi per contrastare la siccità ed aumentare la raccolta di acqua piovana oggi ferma ad appena l’11% – dichiara il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – Insieme ad Anbi e soggetti pubblici e privati abbiamo pronti una serie di interventi immediatamente cantierabili che garantiscono acqua per gli usi civili, per la produzione agricola e per generare energia pulita. Un intervento necessario anche per raggiungere l’obiettivo della sovranità alimentare».

Questa della rete di piccoli invasi è una delle soluzioni più ricorrenti che ascolto per tamponare la crisi idrica (non per risolverla ovviamente). A occhio mi sembra un’idea interessante, ma visto che mi pare stia assumendo concretezza forse merita un maggiore approfondimento sui pro e contro.

Chiudiamo con qualcosa di propositivo, per la rubrica (inesistente), fare cose sensate. Torniamo ancora sul Guardian, dove questa volta è Steven Morris a guidarci alla scoperta di un’iniziativa interessante del Ministero per i cambiamenti climatici (che in alcuni luoghi del mondo serve a qualcosa!). “Decine di progetti di costruzione di strade in tutto il Galles sono stati bloccati o modificati nell’ambito di una politica “innovativa” che ha rivalutato più di 50 progetti sulla base di una serie di test severi sul loro impatto sull’emergenza climatica.

Solo 15 dei progetti esaminati da un gruppo di esperti andranno avanti nella loro forma originale, mentre altri saranno ridimensionati, rinviati o in alcuni casi accantonati. Lee Waters, il vice ministro per i cambiamenti climatici del governo gallese a guida laburista, ha descritto le decisioni come “innovative” e gli attivisti ecologisti hanno definito l’approccio dell’amministrazione come “leader mondiale”.

Waters ha anche detto: “Non arriveremo a zero emissioni se non smetteremo di fare sempre le stesse cose”, ha detto.

Tra i progetti bloccati vi è un terzo ponte di Menai che doveva collegare Anglesey alla terraferma, mentre il controverso progetto della “via rossa” nel Flintshire, nel Galles settentrionale, un’importante nuova strada che minacciava antichi boschi e prati di fiori selvatici, non andrà avanti come previsto. Anche le modifiche alla A483 nei dintorni di Wrexham saranno eliminate e sarà avviata una revisione per valutare un progetto “esemplare” per ridurre l’uso delle auto.

Waters ha dichiarato: “Continueremo a investire nelle strade. Ma ci stiamo anche chiedendo quanto le nuove strade siano la risposta giusta ai problemi di trasporto. Stiamo anche investendo in alternative reali, compresi gli investimenti in progetti ferroviari, di autobus, a piedi e in bicicletta”.

La decisione finale su questi progetti arriva alla fine di un processo avviato un anno e mezzo fa. “La revisione delle strade è stata annunciata nel giugno 2021, congelando tutti i progetti di costruzione di strade. È stato poi creato un gruppo indipendente incaricato di rivedere i progetti considerati parte della revisione”. Ecco, possiamo prendere spunto.

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